martedì 12 marzo 2024

i partigiani: eroi o spietati criminali?

in merito a questo argomento ho sentito di tutto e di più, assieme a quello che ci è stato propinato dalla scuola e dall'informazione di stato. il problema è che quando la bussola punta con ostinazione in una direzione nella mia mente una vocina comincia ad urlare "attento... attento..." e se ci metti sopra anche quello che ho sentito raccontare da testimoni oculari che hanno vissuto la II guerra mondiale per intero, per farmi un'idea personale cum grano salis ho cercato fonti di informazione. questo copia&incolla è una di queste. plagio per intero l'articolo nel timore che per un motivo o per un altro la pagina venga cancellata/oscurata/censurata. Premetto che la lettura di queste righe non è per tutti in quanto vengono descritti atti di efferata crudeltà attuati anche su donne e bambine.



La Senatrice Liliana Segre, con tutto il rispetto dovuto alla sua persona ed alla sua storia di sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti, ormai è dappertutto, invitata, celebrata, scortata ed eletta a simbolo di antirazzismo, antifascismo e antiodio, da parte della sinistra in genere, quasi fosse l’unica testimone vivente a ricordarci che in Italia è esistito il nazismo, il fascismo, la shoah e le leggi razziali e, per questo, guai a “negarle” la cittadinanza onoraria nelle varie città italiane o a non “alzarsi in piedi per applaudire” ogni volta che si parla di lei. Dei crimini fascisti e nazisti ormai sappiamo tutto, o quasi, tuttavia la maggior parte delle persone conosce poco o nulla di quella che, negli anni 1943-1946, fu una vera e propria guerra civile italiana, con migliaia di morti, tra cui molti innocenti. Quelli che poi ne sono a conoscenza, giustificano gli eventi, perché sono convinti che, in caso di eccessi da parte dei partigiani, nella maggior parte dei casi si trattò di giustificati regolamenti di conti, o ripicche verso chi, durante il regime fascista, ne aveva approfittato per prevalere sul prossimo. Ma la realtà fu ben diversa, perchè le fosse comuni, le foibe e la maggior parte degli omicidi portati a termine dalle brigate di partigiani comunisti, con ferocia inaudita, avevano solo lo scopo di eliminare fisicamente i possibili avversari del comunismo sovietico, che si voleva instaurare a guerra finita. La causa di queste stragi non fu solo la vendetta, ma anche il calcolo spietato di una minoranza, che giunse ad uccidere i sacerdoti solo perché tali, gli altri partigiani, non comunisti e persino i propri compagni che non si allineavano ai 
dettami del Partiti. Il famigerato “Triangolo della morte”, tra le città di Bologna, Reggio Emilia e Ferrara, dove, fra il 1943 e il 1946, furono barbaramente uccise dai partigiani comunisti 3.976 persone. Reggio Emilia, definita Città della Resistenza, “contava tra le sue fila un comandante partigiano che incassava centinaia di milioni, parzialmente versati alla sezione Anpi reggiana, la stessa che ha definito molti partigiani locali, assassini e killer spietati, dediti alle esecuzioni sommarie” (dal libro di Gianfranco Stella, intitolato Compagno Mitra, che il figlio del comandante partigiano definito il boia Arrigo Boldrini, nome di battaglia Bulow, vorrebbe censurare e ritirare dal commercio).

Il lato criminale della resistenza
Sappiamo molto poco, o quasi niente, del lato criminale della resistenza, fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni, soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri ai danni delle ausiliarie e di donne fasciste. In molti conoscono la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi, uccisi dai fascisti, ma quanti conoscono la dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna, assassinati dai partigiani, perché uno di essi vestiva la camicia nera? Commemoriamo giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, invece la storia non ci dice nulla della orribile strage di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra Allievi Ufficiali e militi della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave, dopo che si erano arresi ed avevano deposto le armi. Ma è inconcepibile che i sostenitori dell’eroismo partigiano a tutti i costi, dopo aver negato per decenni i loro crimini, hanno ammesso, con evidente imbarazzo, che “in effetti qualche errore e qualche eccesso effettivamente ci furono”, ma, secondo una tesi veramente vergognosa, quei crimini sono pienamente giustificati dal fine, perché tra i partigiani c’era chi “combatteva per la libertà”, mentre dall’altra c’erano i “sostenitori della tirannide nazifascista”.
Il movimento partigiano era estremamente variegato, ma politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano, all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica, da cui prendeva ordine tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin. Obiettivo dichiarato di quei partigiani, una volta sconfitto il fascismo, era quello di far diventare l’Italia uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica e di instaurare nel nostro Paese la dittatura dei proletari, per cui non si capisce su quale base logica e storica i partigiani possano essere definiti “patrioti e combattenti per la libertà”. Se l’Italia oggi è una Repubblica democratica non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti, decretata a Yalta nel 1945, da cui scaturì la nostra collocazione nel settore occidentale e la conseguente dipendenza dagli Stati Uniti. Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu storicamente del tutto marginale, se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico degli alleati, tant’è che le fila partigiane s’ingrossavano solo dopo che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’avanzata degli angloamericani. Peraltro, gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano il lavoro sporco al posto loro, come: assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi, per suscitare la rappresaglia tedesca, che fu quasi sempre spietata e spropositata. Il 25 aprile del 1945 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per Dongo, dove trovò la morte, i partigiani liberarono il capoluogo lombardo, dedicandosi ad una vera e propria mattanza nei confronti di fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari, come testimoniano le lapidi al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano, che raccoglie le spoglie di oltre un migliaio di fascisti, molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati, anche oltre il 25 aprile, dopo aver deposto le armi. Anche la Russia di Stalin contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando un pesante tributo di sangue, non per portare in quelle terre democrazia e libertà, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo.
La definizione “guerra di liberazione”, tanto cara ai partigiani, mi sembra impropria, perché sarebbe molto più corretto parlare di classica e tragica guerra civile, in quanto i fascisti erano italiani, esattamente come i partigiani. Anche la presunta invasione nazista dell’Italia è un clamoroso equivoco storico, semplicemente perché i tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già, infatti, dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il Governo monarchico di Badoglio chiese aiuto all’alleato tedesco, per contrastare gli anglo americani che, nel frattempo, erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano, fino all’8 settembre 1943, quando il Re e Badoglio si schierarono disinvoltamente dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler e lasciando allo sbando l’Esercito italiano.
Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista, cui aderirono in seicentomila, frenò i propositi di Hitler. che aveva intenzione di smantellare totalmente il nostro apparato industriale, trasferendolo in Germania, di deportare nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht ed altro ancora. I giovani che decisero di entrare nell’Esercito Fascista Repubblicano furono spinti da motivazioni non sempre nobili, ma questi giovani preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, pur consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni, unicamente per quel senso dell’onore che oggi si fatica a comprendere. Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa, o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato in diversi libri, così come le giovani e giovanissime ausiliarie, tutte volontarie, catturate, stuprate e uccise dai partigiani.
I fascisti combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’Esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie, mentre i partigiani, pur potendo vestire una divisa, essendo armati e finanziati dagli americani e pur potendo combattere nell’Esercito italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi, autori di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle, con il fine di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi definita con molta generosità “Guerra di liberazione”.
La Repubblica italiana riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo”, al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale, per ricordare una pagina recente della nostra Storia che merita di essere conosciuta, per troppo tempo colpevolmente taciuta e ostinatamente negata, imperniata sui soliti luoghi comuni alimentati dalla sinistra, che vede i cattivi nazifascisti da una parte e i buoni partigiani dall’altra ed infine giustificata dalla logica che “quei crimini sono pienamente giustificati dal fine”. Una logica che, se dovesse prevalere, significherebbe che qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato in nome della potenza di comunicazione e dalla forza di persuasione di chi detiene il potere. Un “Giorno del Ricordo” spesso celebrato senza l’enfasi riservato alle vittime della Shoah, nel “Giorno della Memoria”, nel silenzio assordante delle Istituzioni e dei media, soprattutto di sinistra, quasi a voler dire “ricordatelo da soli”. Ancora oggi, nonostante l’Italia continui a considerarsi un Paese democratico, dove peraltro esiste un Partito politico che addirittura ostenta il termine “democratico” nel suo nome, le vittime delle ingiustizie non sono tutte uguali, perché esistono vittime di “serie A”, come quelle dei nazifascisti e vittime di “serie B”, come quelle dei partigiani. In un Paese effettivamente democratico le vittime dovrebbero essere tutte uguali e senza colore politico, perché, nella tragica realtà della guerra, gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana, per accostarsi a quella bestiale, per cui, o consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni, giuste o sbagliate che possano apparire, oppure la storia deve essere raccontata tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche. Purtroppo questa storia, che sarebbe una storia “giusta”, non è ancora la storia del nostro Paese “democratico” e, solo a conferma di questa affermazione, cito un episodio avvenuto a Bassano del Grappa il 30 novembre scorso, nel totale silenzio delle Istituzioni “democratiche” e dei Media, perché se si nega una cittadinanza onoraria alla Senatrice Liliana Segre tutti gridano allo scandalo e resuscitano razzismo, antisemitismo e fascismo, mentre, se si nega una cittadinanza onoraria alla figlia di una vittima delle Foibe nessuno ne parla, perché “non si deve sapere”.
A Bassano del Grappa, la minoranza di sinistra in Consiglio Comunale è uscita dall’aula, per non votare il riconoscimento della cittadinanza onoraria a Egea Haffner, nata a Pola nel 1941, figlia di Kurt Haffner, prelevato dai titini il 1° maggio 1945 ed infoibato nella cavità carsica di Pisino d’Istria. Durante la turbolenta seduta del Consiglio Comunale, la maggioranza di centrodestra ha annunciato l’avvio dell’iter per il conferimento della cittadinanza onoraria alla senatrice Liliana Segre, ma anche per la Hafner. L’emendamento impegnava la Giunta a estendere anche alla Hafner l’invito rivolto alla Senatrice a vita a un incontro pubblico nella città. “Un’occasione per trasmettere alla Città, ma soprattutto alle giovani generazioni, la loro testimonianza di perseguitati, per una riflessione sui valori fondanti di una società civile, per un agire quotidiano responsabile e senza odio alcuno”. Ma alla sinistra questo non è piaciuto, perché, in questo modo, Shoah e Foibe vengono messe sullo stesso piano. Lo trovo semplicemente vergognoso e non degno di un Paese democratico. Un Paese veramente democratico è quello che riconosce il medesimo rispetto a tutte le vittime innocenti, un Paese che, oltre a costituire la “Commissione Segre”, costituisca una Commissione per far conoscere ai giovani ed all’Italia i tantissimi gravissimi crimini di cui si sono macchiati i partigiani a guerra terminata, solo così si combatte veramente l’odio, che dev’essere sempre osteggiato, senza giustificazione alcuna.
Di seguito, solo alcuni degli innumerevoli, orrendi crimini commessi dai partigiani comunisti, per placare la loro sete di vendetta e di sangue, frutto della loro indicibile crudeltà e lucida follia, paragonabile a quella dei peggiori nazisti. Non serve e non è neppure degno di un Paese che si definisce “democratico” giustificare le loro azioni, qualificandole come “regolamenti di conti, o ripicche verso chi, durante il regime fascista, ne aveva approfittato per prevalere sul prossimo”, così come non serve elencare i morti o stabilire chi ha commesso i delitti peggiori, macchiandosi le mani di sangue innocente, ma serve per contribuire a sollevare il velo di omertà che copre i crimini efferati dei partigiani vincitori e questo solo per amore di verità, poichè solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare che si ripetano in futuro. A seguire, la breve sintesi dei soli episodi più brutali ed un elenco di circostanze, per dare la possibilità, ai tanti che non sanno, di approfondire e conoscere e per dare la possibilità ai pochi che conoscono di ricordare le migliaia di vittime innocenti, trucidate tra atroci sofferenze:

Carabinieri torturati e trucidati a Malga Bala
La strage di Graglia
L’eccidio di Urgnano (Bergamo)
La strage di Oderzo (Treviso)
La corriera della morte
La strage di Rovetta (BG)
La strage di Lovere (Bergamo)
La strage di S.Eufemia e Botticino Sera (BS)
I feroci massacri del Biellese
Il massacro di Schio (VI)
L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli
Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
La strage di Codevigo (Padova)
L’eccidio del 2° R.A.U.
L’eccidio dei fratelli Govoni
I massacri dei Bersaglieri del “Mussolini”
La strage delle Ausiliarie
I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I morti della Divisione “San Marco”
I trucidati della Divisione “Littorio”
I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
Le stragi di Sondrio
Il tributo di sangue delle Brigate Nere
Eccidio del carcere giudiziario di Ferrara
La strage della cartiera Burgo di Mignagola (TV)
Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
Nefandezze nel modenese
Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
Le stragi di Omegna
La strage dei ragazzini di Mario Onesti
La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Altri orrori:
La strage nel carcere di Cesena La strage di Acqui Terme La strage del carcere di Imperia;
I massacri in provincia di Reggio Emilia Gli uccisi di Pescarenico (Lecco);
La strage di Comacchio La strage di Casteggio (PV) La strage di Stradella (PV) e dintorni;
La strage di Zogno Val Brembana La strage di Gazzaniga in Val Seriana La strage di Sordevolo;
La strage di Collegno;
La strage della corriera di Cadibona La strage del carcere di Finalborgo (SV);
La strage del carcere di Thiene;
La strage del carcere di Busto Arsizio I morti di Argenta;
Gli eccidi in Liguria;
L’eccidio di Stremiz (UD) La strage di Monte Manfrei (Savona);
Il massacro di Avigliana (Torino) I morti di Agrate Conturbia (NO) L’olocausto della “Monterosa”;
Gli uccisi del XIV Battaglione Costiero da Fortezza I massacrati di Ponte Crenna (Pavia) I caduti dei Guastatori del Genio II Battaglione;
Gli uccisi del Battaglione Volontari Mutilati “Onore e Sacrificio” L’eccidio di Ozegna Il massacro del Distaccamento “Torino” della X;
I trucidati della base operativa “Est” della X;
Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X I morti del Battaglione “Sagittario” della X;
L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti I massacrati del Battaglione “Folgore” Le stragi di Genova;
Le stragi di Imperia Le stragi di Milano Le stragi di Varese;
Le stragi di Como Le stragi di Brescia Le stragi di Pavia;
Le stragi di Vicenza Le stragi di Treviso Le stragi di Padova;
Le stragi di Bologna Le stragi di Parma Le stragi di Modena;
Le stragi di Forlì Le stragi del 3° Reggimento M.D.T. “D’Annunzio” Gli uccisi del Battaglione “Montebello”;
Il sacrificio del Battaglione “9 settembre”;
L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo);
Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro
I partigiani erano davvero “patrioti e combattenti per la libertà”?
Guerra di liberazione o guerra civile?
La Repubblica Sociale Italiana
La modalità di lotta dei partigiani.
Vittime di “serie A” e vittime di “serie B”
La “democrazia” del Partito Democratico
Orrendi crimini. Per il ricordo dei pochi che conoscono e per informazione dei tanti che non sanno
Tragico destino per dodici giovani Carabinieri, catturati dai partigiani comunisti alle Cave del Predil (Udine), nell’alto Friuli. Il 23 marzo 1944, i partigiani comunisti presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino Perpignano, di Sommacampagna (Verona), mentre stava rientrando negli alloggiamenti e lo costrinsero a rivelare la parola d’ordine. Una volta entrati nel presidio, catturarono tutti i Carabinieri, in parte addormentati. I dodici militari furono deportati nella valle Bausiza e, rinchiusi in un fienile, venne loro dato un pasto condito con soda caustica e sale nero. Dopo poco, si levarono urla e implorazioni raccapriccianti e la loro agonia si protrasse fra atroci dolori per ore e ore. Stremati e consumati dalla febbre: Primo Americi, Lindo Bertogli, Ridolfo Colzi, Michele Castellano, Domenico Dal Vecchio, Fernando Ferretti, Antonio Ferro, Attilio Franzan, Pasquale Ruggiero, Pietro Tognazzo e Adelmino Zilio, mai impiegati in altri servizi, tranne quello a guardia della Centrale Elettrica, alcuni appena ventenni, furono costretti a camminare sino a Malga Bala (oggi Slovenia), dove, il giorno 25 marzo, li attendeva una fine orribile. Il Vicebrigadiere Perpignano fu spogliato, gli venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore del calcagno e, issato a testa in giù, fu legato a una trave. Poi, tutti furono incaprettati. A quel punto, i macellai partigiani cominciarono a colpire i corpi dei Carabinieri con i picconi; a qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, ad altri venne aperto a picconate il cuore o vennero cavati gli occhi. All’Amenici venne conficcata nel cuore la fotografia dei figli, il Perpignano venne finito a pedate in faccia e in testa. La mattanza terminò con i corpi dei martiri legati con il filo di ferro e trascinati sotto un grosso masso. Ora le misere spoglie di questi ragazzi riposano, dimenticate dagli uomini, dalle Istituzioni e dalla storia, in una torre medievale di Tarvisio, le cui chiavi sono conservate da alcune suore di un vicino convento. Una lapide ambigua li ricorda, senza una parola di verità.
Il 27 aprile 1945, dopo un disperato combattimento durato 14 ore, una trentina di persone appartenenti al R.A.U. (Raggruppamento Arditi Ufficiali) e al R.A.P., fra cui 24 ufficiali, cinque ausiliarie e due mogli di ufficiali che avevano raggiunto i mariti, si arresero ai partigiani. I prigionieri vennero concentrati, in parte al “Cavallino Bianco” e in parte altrove. Il mattino del 28 aprile, gli uomini del RAU furono condotti, prima a Dorzano, poi ad Aral Grande ed infine, il 1° maggio, a Graglia, ove furono rinchiusi in una stanza dell’albergo “Belvedere”. Furono giorni terribili di percosse e sevizie, quasi senza mangiare e ad una donna incinta, moglie di un ufficiale, fu negato anche un bicchiere d’acqua. Il giorno 2 maggio, in più riprese, vennero condotti fuori. Il primo gruppo fu condotto presso un ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro e furono tutti massacrati. Fra loro, il Maggiore Casini, il Capitano Gili, il S. Tenente Tosi. Il secondo gruppo venne massacrato in località Pairette, dove morirono il Capitano Toppi, il Capitano Visconti, di Modrone e il Tenente Conti. Il terzo gruppo fu ucciso alla cascina Quara, nei pressi del Santuario ed il quarto in località Portioli. Ultime a morire furono le donne, uccise dietro il cimitero e non ci fu pietà neppure per la donna incinta. Essa, gettata a terra con uno spintone, fu uccisa con una raffica di mitra insieme al bambino che portava in grembo.
Nei giorni dal 26 al 29 aprile 1945, vennero rinchiusi nella camera di sicurezza della caserma dei Carabinieri di Urgnano, presso Bergamo, 11 fascisti locali, in parte arrestati, in parte presentatisi spontaneamente ai membri del CLN locale, per chiarire la loro posizione di persone a carico delle quali non pendeva nessuna accusa specifica. Il presidente del locale CLN, pare su istruzioni della Questura di Bergamo, inviò presso la stessa Questura gli 11 fascisti, scortati da molti partigiani venuti anche da Bergamo. Nove fascisti furono trattenuti in Questura circa un quarto d’ora, dopo di che furono condotti presso il cimitero di Bergamo e, dopo essere stati depredati di tutto, furono massacrati a raffiche di mitra, dopo essere stati duramente picchiati. Gli altri due, Giovanni Discacciati e Dino Richelmi furono risparmiati, non si sa bene perché. Dopo la guerra, le famiglie chiesero giustizia, facendo anche i nomi di diverse persone ritenute a vario titolo responsabili, ma la magistratura non riuscì a stabilire responsabilità oggettive e giustizia non fu fatta.
Il 28 aprile del 1945, 26 giovani militi dei Battaglioni “Bologna” e “Romagna” della GNR e 472 uomini della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo, della R.S.I. (450 Allievi più 22 Ufficiali) si arresero al C.L.N., con la promessa di avere salva la vita. L’accordo fu sottoscritto nello studio del Parroco Abate Mitrato, Domenico Visentin, alla presenza del nuovo Sindaco di Oderzo, Ing. Plinio Fabrizio, del Dr. Sergio Martin, Presidente del C.L.N., del Colonnello Giovanni Baccarani, Comandante della Scuola di Oderzo e del Maggiore Amerigo Ansaloni, Comandante del Battaglione Romagna. Ma quando scesero i partigiani della Brigata Garibaldi “Cacciatori della pianura”, comandati dal partigiano Bozambo, considerarono l’accordo come carta straccia e, il 30 aprile, cominciarono i massacri. Quel giorno furono uccisi 13 uomini sulle rive del Monticano. La maggior parte, ben 100, furono uccisi al Ponte della Priula, frazione di Susegana e gettati nel Piave il 12 maggio. La mattina del 17 maggio, scelsero tredici Allievi Ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula.
Nella notte fra il 14 e il 15 maggio, tre camion della Pontificia Opera di Assistenza, che venivano dal bresciano e trasportavano, verso sud, reduci della R.S.I. che cercavano di rientrare a casa, furono fermati a Bondanello dalla polizia partigiana, che aveva sede nella casa del popolo di Moglia. Il primo camion, proveniente da Brescia, trasportava 43 persone, consegnate alla polizia partigiana di Concordia, che ne rinchiuse 25 a Villa Medici, ribattezzata “Villa del pianto”. Questi furono depredati di tutto e massacrati il 17 maggio. Gli altri, due notti dopo, vennero caricati su un camion e fatti proseguire per Carpi. Ma, giunti a San Possidonio, furono scaricati, condotti a gruppi nella campagna circostante, depredati, seviziati e uccisi nella notte del 19 maggio. Fra tanto orrore, un fatto ancora più orrendo: fra quei poveretti c’era anche una giovane donna con marito e figlio. Questi ultimi finirono massacrati con gli altri. La donna, al sesto mese di gravidanza, fu violentata da nove uomini e poi abbandonata in stato confusionale davanti ad un albergo di Modena. Dalle risultanze processuali, pare che gli uccisi fossero, in totale, più di ottanta. Diversi responsabili furono identificati ma, come al solito, pur essendo stati ritenuti colpevoli, beneficiarono dell’amnistia e del minaccioso sostegno del partito comunista, rimanendo impuniti.
Il 26 aprile 1945, un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento, di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^ Compagnia, sentite le notizie della disfatta tedesca, decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi e si diresse verso Clusone, sollecitato in tal senso anche da tale Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi. Giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N., che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi, comandati dal giovane S. Tenente Panzanelli, di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali delle scuole elementari. Il Prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Compagnia, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, di Milano, Ausili Enzo, di Roma e Bricco Sergio, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e fucilati. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vicebrigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini, sorella del Duce. Dopo la guerra, alcuni di quei partigiani, ritenuti responsabili della strage, furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere, in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che, in un unico articolo, dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo, perché da considerarsi “azioni di guerra”. Dalla viltà dei Giudici, fu considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi, compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata. Purtroppo, periodicamente, i “soliti ignoti” vandalizzano, nel cimitero di Rovetta, le lapidi commemorative dei 43 legionari uccisi e di Padre Antonio, il loro Cappellano.
Mercoledì 25 aprile 1945, un piccolo presidio della Legione “Tagliamento”, 26 militi della 4^ Compagnia del II Reggimento, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno, in Val Canonica, venne sorpreso da un gruppo di partigiani, fra i quali vi erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa, i militi reagirono, subendo 9 morti, fra cui il Comandante aiutante, Maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, venne ucciso, insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedettero al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunse in aiuto una squadra del plotone Guastatori, al comando del Brigadiere Amerigo De Lupis, il quale si rese conto che i tre feriti, ricoverati all’Ospedale di Darfo, non avevano una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, morì la mattina del 26. Allora, nel pomeriggio, De Lupis, con una piccola scorta, portò i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo, senza sapere che i partigiani stavano occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R., comandato dal Ten. Agostino Ginocchio, si arrese a un gruppo di partigiani, mentre altri partigiani stavano affluendo dalle montagne. Così De Lupis e i suoi uomini vennero sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini), che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa con De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma, poichè la cerimonia si prolungava, i partigiani condussero via tutti gli uomini di De Lupis e li portarono dietro il cimitero, dove furono massacrati con raffiche di mitra, mentre i due legionari ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, prelevati da partigiani, fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, furono percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati.
Fra il 9 e il 13 maggio 1945, 11 fascisti furono prelevati a Lumezzane, altri a Toscolano Maderno e orribilmente seviziati. 23 vennero uccisi proprio di fronte alla Chiesa di S.Eufemia, mentre altri 16 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. I civili erano 16 e i militari 23, di cui 9 erano della Divisione San Marco. I cadaveri furono ritrovati, in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e con le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.
A Bocchetta Sessera (Vercelli), una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, anche donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume si trovino ancora nel bosco sottostante. Fu questa una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino, detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze, per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia, dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore.
La notte fra il 6 e il 7 luglio 1945, una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio, dove erano detenute 91 persone, fascisti o presunti tali, tra i quali: 5 della Brigata Nera, 3 della Polizia Ausiliaria, 3 Ausiliarie, 34 fascisti e gli altri, arrestati come tali, su semplice indicazione di un partigiano. C’erano ragazze diciassettenni, donne in gravidanza e vecchi. Fra loro c’erano: Il Primario dell’Ospedale di Schio Dr. Michele Arlotta, il Commissario Prefettizio Dr. Giulio Vescovi, i fascisti RSI Mario Plebani, Tadiello Rino, Domenico e Isidoro Marchioro, il Dr. Diego Capozzo, Vice Commissario Prefettizio, Anna Franco di 16 anni, Calcedonio Pillitteri, reduce dalla Russia, il vecchio Dr. Antonio Sella, già Podestà di Valoli del Pasubio, Giuseppe Stefani già Podestà di Valdastico. Di queste 91 persone, che erano state radunate in uno o due stanzoni e contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben 54, di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il Tribunale Militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite. Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il Governatore Militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio costituivano una macchia per l’Italia ed ebbero una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani, dove vennero considerati senza attenuanti.
Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945, si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli, Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendosi verso nord, per raggiungere la Valtellina. I reparti che costituivano la colonna erano: il 604° Comando Provinciale GNR Vercelli, comandato dal Colonnello Giovanni Fracassi, la VII B.N. “Punzecchi” di Vercelli, parte della XXXVI B.N. “Mussolini” di Lucca, il CXV Battaglione “Montebello”, il I Battaglione Granatieri “Ruggine”, I Battaglione d’assalto “Ruggine”, il I Battaglione Rocciatori (poi controcarro) “Ruggine”, il III Battaglione d’assalto “Pontida”. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novara, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative e molte incertezze, la sera, decise di arrendersi ai partigiani di Novara, dietro la promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile, i prigionieri vennero condotti a Novara e rinchiusi, in massima parte, nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 aprile cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti, dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi, insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio, Morsero venne portato a Vercelli e fucilato. Intanto giunsero gli americani, che tentarono di ristabilire un minimo di legalità. Ma, il Corriere di Novara dell’8 maggio parlò di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché, il 12 maggio giunsero, da Vercelli, i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di “Gemisto”, cioè Francesco Moranino, che prelevarono 140 fascisti, elencati in una loro lista, che furono portati all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli, dove furono, in buona parte, massacrati. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio, erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri vennero schiacciati da un autocarro in un cortile, altri ancora fucilati nell’orto, accanto alla lavanderia, altri, pare tredici, fucilati a Larizzate ed altri, infine, portati con due autocarri e una corriera al ponte di Greggio, sul canale Cavour, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi, i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione, alimentati dal canale Cavour, furono più di sessanta. Solo il giorno 13 maggio, gli americani presero il controllo dei prigionieri, evitando altri massacri, mentre era già pronta la lista di altri prigionieri da prelevare, quello stesso giorno alle ore 18.00.
Dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Battaglione N.P. della X fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere. Dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata “Mazzini”, comandata da Mostacetti. Ma, nella notte fra il 4 e il 5 maggio, essi furono divisi in tre gruppi, per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Medean di Comboi e ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, quindi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.
Fra il 3 e il 13 Maggio 1945, furono seviziate e uccise oltre 365 persone, fra cui 17 fascisti (uomini e donne) di Codevigo. I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile ed incarcerati. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono, dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li portarono, invece, a Codevigo e, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e li uccisero a due per volta, gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente ed altre, gettate nei cimiteri dei dintorni, furono recuperate per l’opera instancabile di tale Rosa Melai che, il 27 maggio 1962, riuscì a inaugurare l’Ossario, dove radunò le salme ritrovate. Oggi, sono 114 i caduti che qui hanno trovato riposo e rispetto.
Gli uomini del 2° R.A.U. (Reparti Arditi Ufficiali), appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma, il 29 aprile vennero divisi in due gruppi: nel primo vennero inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo venne condotto a Graglia, fra inauditi maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni e fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945, furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara, presso il Santuario e furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia, dove una lapide bronzea, recante il gladio della R.S.I., ne ricorda il sacrificio.
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945, ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano, dopo averli condotti presso una fossa anticarro, i sette fratelli Govoni, che erano stati prelevati a Pieve di Cento, la mattina alle 6,30: Dino, 40 anni, falegname, Marino, 34 anni, contadino, Emo, 31 anni, falegname, Giuseppe, 29 anni, contadino, Augusto, 27 anni, contadino, Primo, 22 anni, contadino e Ida, di appena venti anni, sposata ad Argelato e madre di un bambino. Prima della morte, tutti furono picchiati a sangue e seviziati in vario modo. Solo Dino e Marino avevano militato nella R.S.I. Nel 1951, quando fu scoperta la fossa dove giacevano i corpi dei 7 fratelli, insieme a quelli degli altri dieci fascisti, si scoprì lì vicino un’altra fossa, con i resti di 25 cadaveri.
Il Battaglione di Bersaglieri volontari “Mussolini” fronteggiò gli slavi del X Corpus sul fronte orientale, fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del “Mussolini” decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite, che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali, per accertare eventuali responsabilità. Ma i “titini” si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e trucidati. Dopo alcuni giorni, altri dodici soldati furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora, il 18 maggio, furono prelevati 50 degenti dall’Ospedale Militare di Gorizia e uccisi, di cui dieci erano Bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica, ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminarono morte fra gli odiatissimi Bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi, ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 Bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, ebbero la fortuna di tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del Battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.
Negli ultimi giorni dell’aprile e nei primi di maggio del 1945, l’odio bestiale dei partigiani si scatenò, con particolare accanimento, contro le donne che avevano prestato servizio, in qualità di Ausiliarie, nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, ripetuti stupri e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole al ludibrio di folle imbestialite. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.”, ricorda diecine di casi di Ausiliarie, spesso giovanissime, catturate da sole o in piccoli gruppi e, poi, martirizzate e trucidate. L’elenco delle Ausiliarie cadute che compare in detta opera, è di 200 nominativi, ma non è completo, proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani, in quella primavera di sangue, a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine. Nella sola Torino ne furono massacrate 18.
Il Battaglione “Debica” ed il Gruppo di combattimento “Binz”, di questa Divisione, ritenuti i reparti più idonei al combattimento, si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile 1945. Il Battaglione Pionieri ed i Battaglioni dislocati a Mariano Comense e a Cantù, invece, dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, furono catturati dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Tenente Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.
Negli ultimi giorni di aprile 1945, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione “San Marco” furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.”, ne elenca alcune centinaia, fra cui, circa 300 ignoti ancora in divisa, ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei, Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi. Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., il 27 aprile, accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma, una volta deposte le armi, i partigiani condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Tenente Colonnello Zingarelli, la cui salma, ritrovata con le altre orrendamente mutilate, potè essere identificata in virtù di un maglione blu che era solito indossare.
Negli ultimi giorni di aprile 1945, anche i reparti della “Littorio”, che difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento. Quelli che, invece, si consegnarono ai partigiani, come il III Battaglione del 3° Reggimento Granatieri, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del Capitano Aldo Quaranta, per un indisturbato deflusso di tuti i reparti ed il III Battaglione, che, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà, forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Battaglione ed i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della “Littorio”, fidando nella parola dell’Oratino. Ma, gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, Comandante del III Battaglione, il Maggiore Montecchi, il Tenente Buccianti, il Capitano Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi, alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.
Il I Battaglione era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente, per contrastare l’avanzata della 92^ Divisione “Buffalo”. I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e quasi tutti uccisi immediatamente. Il II Battaglione si trovava, invece, in Liguria, in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì, insieme alla 34^ Divisione Tedesca, fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale, previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Capitano Francoletti e il Tenente. Casolini furono condotti sul greto della Dora e massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Battaglione aveva anche due giovani mascotte, di quattordici e 12 anni, anche loro assassinate dai partigiani.
Il 25 aprile 1945, a Sondrio, il Generale Onorio Onori era il Comandante dei circa 3000 uomini della R.S.I. ed avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini, al comando del Maggiore Renato Vanna, erano a Tirano e cercavano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tentò di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma il Generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, Federale di Sondrio, gli andarono incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, comunicandogli di essersi arresi il giorno prima e invitandolo a fare altrettanto. Era il 29 aprile, tutti i prigionieri vennero chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio e, malgrado le solite promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali, ai primi di maggio, ebbero inizio le uccisioni di massa. Il 4 maggio furono prelevati 8 uomini, condotti ad Ardenno, obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 6 maggio ne furono prelevati 13, condotti a Buglio in Monte e uccisi. Il 7 maggio fu la volta di altri 15, i quali, condotti vicino a Bagni del Masino, furono mitragliati alle gambe e, poi, bruciati vivi. Si calcola che, in totale, gli uccisi siano stati oltre 200, secondo alcuni, addirittura 500. Fra le vittime, anche l’ausiliaria Angela Maria Tam, il Maggiore Vanna e due Capitani medici. Il S. Tenente Paganella fu gettato da un campanile. Molte furono anche le vittime del I Battaglione Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando.
La XI Brigata Nera “Cesare Rodini” di Como, si arrese il 28 aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma, al presidio di Cremia, alla Compagnia “Menaggio”, toccò una sorte tragica. Il 25 aprile, un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini, classe 1930, portò a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma, il Comandante del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano salva la vita. Appena consegnate le armi, tutti gli squadristi furono portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati, compreso il giovane Tomaini.
L’8 giugno 1945, una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire, con uno stratagemma, la porta del carcere “Piangipane”, di Ferrara. Tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche di mitra, sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia. In totale i morti furono 18 e 17 i feriti. In successive e tardive indagini, furono identificati i tre sicari, ma, la Corte di Appello di Ancona, che li giudicò, ritenne estinti i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato “commesso nella lotta contro il fascismo”.
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono veri e propri campi di sterminio, dove, in brevissimo tempo, procedettero a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano “epurazioni”, dopo aver inflitto atroci sevizie. Come, ad esempio, la cartiera “Burgo” di Mignagola, frazione di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave. In questa cartiera furono sterminate 400, o, forse, anche 1000 persone. Si ha notizia di atroci sevizie inflitte ai prigionieri, prima dell’uccisione: lamette ficcate in gola, distintivi fatti ingoiare, spilloni piantati nei genitali, camminate a piedi nudi su cocci di bottiglia, bocca riempita di carta che poi veniva incendiata. Tra i trucidati, il giovane ufficiale Gino Lorenzi, crocifisso; era un sottotenente della GNR, appena uscito dalla scuola A.U. Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una rozza croce, costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente, fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono. Ma non fu l’unica crocifissione, si ha notizia anche della barbara e feroce tortura inflitta ad un altro giovane S. Tenente della GNR, appena uscito dalla scuola A.U.: Walter Tavani, crocifisso a un portone a Cavazze (MO). E ancora altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle, scelti tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano, dopo sevizie atroci, come: mani mozzate, occhi strappati, lingua inchiodata, unghie strappate e genitali amputati.
L’8 maggio 1945, una piccola folla di facinorosi, sobillati da comunisti, prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata di ogni bene asportabile e quindi devastata, soltanto perché colpevoli di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con feroci sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei due fascisti, gettati tra le fiamme ancora vivi.
Il 29 aprile 1945, a Medolla (MO), il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto su una carrozzella, venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto. Il 27 aprile 1945, a Modena, Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, dove furono sepolte vive.
A Trausella (TO), la levatrice di quel Comune fu prelevata mentre si recava ad assistere una partoriente e trascinata presso il comando di una formazione partigiana, dove fu violentata da un numero imprecisato di eroici “combattenti per la libertà”, che poi la trucidarono, assassinandola tra tormenti atroci, avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con altri tamponi infiammati fino alla morte.
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio 1945, una squadra di partigiani penetrò con l’inganno nella casa del Sig. Raffaele Triboli e lo prelevò, insieme alla moglie, Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni, Gianna. La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restarono soli in casa, nel terrore, i figli: Francesca, di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine, gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute. Ma questo non fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona del lago d’Orta.
Il 25 aprile 1945, un reparto di giovanissimi militi della Contraerea della Malpensa, guidato dal Sergente Mario Onesti, si dirigeva verso Oleggio. Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difesero fino a quando, il Cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, li invitò ad arrendersi, con la promessa che avrebbero avuta salva la vita e un salvacondotto per tornarsene a casa. Il Sergente interpellò i suoi giovanissimi militi, poco più che adolescenti e decise di accettare. Qualcuno non si fidò e riuscì a fuggire, ma undici militi, col loro Sergente, si consegnarono e, alle 18,30, si scrisse un verbale dell’accordo. Ma, i partigiani non avevano nessuna intenzione di rispettare il patto e, il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vennero trattenuti come prigionieri nelle segrete del castello di Samarate, dove vennero sottoposti a indicibili torture. Il 27 aprile, alle 8 di mattina, vennero caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il Prete che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo fu impotente e potè solo impartire una frettolosa benedizione, poi la fucilazione. Tutti offrirono il petto ai carnefici, al grido di “Viva l’Italia”. Non sazi, gli aguzzini infierirono sui corpi degli uccisi, anche ficcando ombrelli negli occhi dei morti.
Il 9 gennaio 1945, alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica nella campagna modenese, dove si era rifugiato il Veterinario Carlo Pallotti, fascista, insieme alla famiglia, massacrandoli tutti. Furono ritenuti responsabili i partigiani modenesi Michele Reggianini e Giuseppe Costanzini, che non subirono alcuna condanna per questo crimine, in quanto il massacro fu ritenuto, dalla Magistratura della nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.
Le stragi al Ponte della Bastia;
Dott. Antonio De Marco

giovedì 1 febbraio 2024

La monetizzazione dell'arte dell'apparire in barba ai polli

 Una volta per caso finii sul profilo Instagram di chiara ferragni e restai disgustato dall'ostentazione fine a se stessa di beni di lusso che questa tipa effettuava. qualcosa del genere "sto andando a fare la spesa con le mie scarpe di tom ford 4000€, borsa di hermes 11000€, e così via... insomma un'offesa alla fame nel mondo. ma poi, è proprio vero che vai al supermercato vestita così??? ma FINISCILA buffona! è stato quello che ho pensato. e così iniziò il mio processo irreversibile di antipatia viscerale per questa tipa tutta "tacco-e-punta" come si suol dire. si, sarà stata brava a monetizzare questo talento e questa sua arte dell'apparire, ma, ribadisco, mi è sempre stata sulla punta di, non dico cosa ma l'avrete capito...

sembrerò sadico ma ci ho provato gusto quando ho cominciato a leggere che tutto il suo impero sta iniziando a crollare come un castello di carte, quando qualcuno (la guardia di finanza toh...) si è accorta che c'erano sassolini in mezzo alle lenticchie. così è venuto fuori che molti dei suoi followers erano fasulli o troppo silenziosi (???), che non solo la storia del pandoro puzzava ma anche altre, ed ecco che la secca come una tavoletta (non voglio fare body shaming, ma tutta sta bellezza non ce l'ho mai vista. mi appello al non è bello ciò che bello ma è bello ciò che piace), sempre perfettina, vestita come un manichino di un negozio di lusso, che spara monologhi sulla donna che sinceramente a mio avviso più che appartenerle mi sono sembrati operazioni di marketing, e...

basta mi fermo qui perchè più scrivo e più mi si avvelena la tastiera.

perchè è tutto vero come dice la pubblicità "ti piace vincere facile?", si, finchè dura.

dall'instagram della ferragni. foto fortemente criticata con commenti LIMITATI. vergogna. tra l'altro mi sembrerebbe un fotomontaggio



venerdì 12 maggio 2023

mini dossier pompe di calore

L'argomento, come tutti d'altra parte, se affrontato minuziosamente ed a fondo è esteso, quindi mi limiterò prevalentemente ad inserire link salienti sull'argomento, lasciando al lettore la facoltà di approfondire quanto lo desideri. Buona lettura.

Come riscaldare casa con la pompa di calore, quanto costa e quanto si risparmia

 Pompa di calore: principio di funzionamento

Pompa di calore per riscaldamento e raffrescamento



in fase di aggiornamento man mano che trovo materiale interessante

 

giovedì 16 marzo 2023

La Gara

 Quando comprai il mio primo PC ed installai Word, venne il desiderio di provare il word processor per antonomasia raccontando la mia prima gara di Enduro da poco fatta. Eccola


LA PARTENZA


L'aria del mattino filtra pungente attraverso la mentoniera del casco mentre mi avvio

in sella alla moto all'appuntamento fissato il sabato mattina alle 8.30 in piazza Duomo, visto che è preferibile arrivare presto per poter provare il percorso. Mia madre mi accompagna con la macchina dato che sulla moto non posso caricare il borsone ed il bidone da 25 litri.

Claudio puntuale come al solito è già sul posto ma prima di iniziare a caricare le moto sul furgone bisogna aspettare gli immancabili ritardatari. Il furgone è un vecchio Volkswagen che lui usa per effettuare le consegne e dimostra tutti i suoi anni. Gli scompartimenti laterali, sotto il cassone, hanno il fondo parzialmente arrugginito e ripongo non senza timore il borsone con tutti i ricambi, gli attrezzi e l'abbigliamento da gara.

Facciamo il pieno a Baracca e ci avviamo verso Pedara, uno dei tanti paesi alle falde dell'Etna al seguito dell'auto di Ciccio.

Il problema di tutti è infatti orientarsi nella ragnatela di strade che solcano le falde del vulcano ma per fortuna il Presidente, così chiamiamo il buon Ciccio in quanto presidente del moto-club, forte dell'esperienza dettata da quasi vent'anni di gare in mezza Sicilia, riesce ad orientarsi magistralmente in questi luoghi che ospitano con cadenza annuale le competizioni.

LA RICOGNIZIONE

Arriviamo a Pedara verso le dieci e mezza ma passano almeno 3/4 d'ora prima di scendere le moto dal furgone e dal carrello e terminare il rito della vestizione.

Mentre indosso la maglia del moto-club passano alcuni piloti che stanno già provando il percorso ed io non vedo l'ora di iniziare.

Finalmente partiamo seguendo le frecce rosse pitturate sul tragitto che per tutta la gara permetteranno di orientarmi lungo un percorso che imparerò al terzo dei quattro giri.

La ricognizione del giorno prima ha infatti la duplice funzione di familiarizzare sia con le strade da percorrere che con le difficoltà del tracciato che non sempre è alla portata di tutti, specialmente quando i tempi sono tirati.

Nel primo tratto in fuori strada Peppe cade e si fa male ai legamenti del ginocchio e questo gli comprometterà la gara ma dopo pochi minuti siamo nuovamente in moto.

Proviamo il percorso per intero esclusa la Speciale in linea ed il Fettucciato in quanto da regolamento, le prove a tempo determinanti per la classifica sono chiuse, per non agevolare i locali che  comincerebbero a provare una settimana prima affinando così la tecnica e le traiettorie non lasciando molte chance a chi vede per la prima volta le Prove speciali il sabato o addirittura la domenica.

Al termine della ricognizione sono piuttosto soddisfatto di me in quanto il mio timore non è finire in coda alla classifica ma riuscire a terminare la gara possibilmente senza penalità.

Il pomeriggio è dedicato alla manutenzione delle moto e alle  punzonature, quindi inizio con la pulizia del filtro dell'aria che lavo con la benzina e metto in un angolo ad asciugare provvedendo a tappare la cassetta filtro con una palla di carta per impedire che polvere o terra penetri nel carburatore, nel mentre inizio ardua operazione della sostituzione del copertone (cosa che non mi è mai riuscita bene).

Mentre sudo e do l'anima con mazza e stecche il Presidente mi grida "Marco muoviti che stanno chiudendo le punzonature!!!", guardo l'orologio e mi accorgo che sono ormai le 5.30 del pomeriggio ed il tempo è volato senza che me ne accorgessi.

Monto come capita la ruota davanti e senza gomma mi avvio spingendo la moto presso i commissari tecnici i quali verificano che il mezzo sia conforme al regolamento e siglano con una stupenda vernice verde i mozzi delle ruote i carter del motore i silenziatori delle marmitte ed il telaio. Questo per evitare che durante la gara qualcuno in seguito ad avarie sostituisca la moto o parte di essa.

Torno tutto contento dal gruppo e termino di montare con qualche difficoltà la ruota ed il filtro dell'aria, quindi metto in moto. Al secondo tentativo il motore si avvia ma si spegne subito dopo ed io per non dare soddisfazione alla moto tento di riavviarla senza successo.

Che fare allora? Dietro di me vedo una stradina in discesa che mi permetterebbe di avviare la moto senza fatica e decido di avviarmi; ingrano la quinta e inizio a scendere, lascio la frizione ma il motore non si avvia anzi si blocca la ruota posteriore e lascio qualche etto di buon copertone appena montato sull'asfalto, ritento ma non vuole saperne di partire.

Mentre le provo tutte vedo che sto per incrociare la strada nazionale e decido di fermarmi per controllare il motore ed anche perché mi sono allontanato dal gruppo senza avvertirli e tornare a spinta è pura utopia. Controllo il rubinetto della benzina che è regolarmente aperto, stacco il tubo e mi accerto che il carburante defluisca  regolarmente quindi, mentre cominciano a raccogliersi attorno a me alcuni bambini del paese che visti i miei infruttuosi tentativi di avviare la moto si offrono di gareggiare al mio posto.

Ci mancavano anche gli sberleffi dei locali ed io continuo a sudare ed a non capire cosa succeda mentre faccio l'indifferente assumendo l'espressione di quello che ha tutto sotto controllo.

"Lo fa sempre ma poi parte" dico, ma Lei non sente ragione e si ostina nel suo mutismo mentre i ragazzini sghignazzano.

"Che fine hai fatto" sento chiedermi, mi volto e vedo Daniela la moglie di Ciccio che è venuta a cercarmi in moto, "Non parte" dico e comincio a pensare che la gara è finita prima di cominciare, poi però colto da un'improvvisa ispirazione chiedo ad in bambino:

"questa strada in discesa procede ancora per molto?" , "Uuuu... hai voglia" risponde il cinico spettatore; decido allora di proseguire in discesa chiedendo a Daniela di avvertire gli altri di recuperarmi con il furgone qualora non si avviasse.

E giù per la stradina stretta e ripida fiancheggiata da muretti a secco come solo le strade del catanese possono essere: sono lanciato di 5° e lascio bruscamente la frizione, la pendenza non permette alla ruota di bloccarsi ma non consente comunque al motore di avviarsi, scalo allora in 4° e così in 3° ma la moto non parte, passo alla seconda ma segni di vita non se ne sentono, allora colto dalla disperazione passo in 1° ed apro a manetta il gas !

Dopo neanche un metro la moto fa un botto enorme e con una nuvoletta di polvere bianca espulsa dalle marmitte (cosa questa notata da Daniela) si avvia.

Scoppio dalla gioia e mantenendo il motore su di giri faccio inversione di marcia e ritorno sui miei passi con un interrogativo in testa: cosa poteva essere successo ?

A distanza di mesi ci siamo ricordati che tornando dalle punzonature non avevo tolto la carta dalla scatola filtro, otturando così l'aspirazione del motore il quale però, era riuscito ad avviarsi quando aprendo completamente il gas avevo permesso alla carta di passare attraverso il carburatore, le valvole di aspirazione, la camera di scoppio, le valvole di scarico e finalmente le marmitte!!!

LA NOTTE

Arriviamo in albergo e sistemiamo furgone e macchina in modo da poterli controllare dalle stanze e dopo una allegra mangiata andiamo a coricarci.

Cerco di prendere sonno presto ma invano, il nervosismo per pre-gara comincia a farsi sentire già da adesso e comincio a rigirarmi nel letto senza trovare tregua. In definitiva passo quasi tutta la notte in bianco, e questo perché volevo essere fresco e riposato il giorno dopo. La domenica alle 7 ci troviamo tutti nella hall già bardati di tutto punto e cominciamo a discutere sulla migliore alimentazione ed io alla fine decido per un caffè ed un cornetto.

LA GARA

Ci avviamo verso la piazza del paese, posteggiamo i mezzi e scarichiamo le moto.

Prima di avvicinarci al palco partenze do un ultimo controllo alle leve ed allento un poco l'alza valvola automatico temendo di avere sì una messa in moto più morbida ma anche di lasciare le valvole in tiro rischiando di bruciarle. Di questa scelta me ne pentirò amaramente in seguito.

Ci raccogliamo sotto il palco studiando la rampa di accesso che sembra alquanto ripida e visto che bisogna arrivare sulla linea di partenza a spinta, nutriamo qualche perplessità.

Naturalmente i catanesi sono una fonte inesauribile di idee e l'inevitabile uovo di colombo era prendere una generosa spinta e farsi aiutare in caso di difficoltà da qualche anima pia.

L'ordine di partenza rispetta le cilindrate in ordine crescente e quindi gareggiando nella "oltre quattro tempi", vale a dire la massima cilindrata mi trovo in fondo all'ordine di partenza. Aspetto comunque, sebbene con un certo nervosismo, il mio turno facendo delle prove di avviamento.

Alle 9 circa arriva il mio turno e spingo come un forsennato la moto sul palco, pensando che questo è solo l'anticipo, riconosco nel direttore di gara Gaspare al quale chiedo di scandirmi i secondi dopo il via.

Il regolamento prevede infatti una penalità se dopo un minuto dall'orario teorico di partenza il mezzo non parte regolarmente, pensando che in definitiva è preferibile partire a spinta che non partire affatto.

Fortunatamente la moto è clemente e parte quasi subito e comincio a tirare come un disperato per raggiungere Nico che è partito un minuto prima. Lo raggiungo dopo un chilometro circa prima di entrare nel primo tratto in fuori strada.

Si tratta di un sentiero che si snoda in un vasto pianoro di natura lavica (come tutti i percorsi del catanese) con scalini di varia natura e dimensione sia a salire che a scendere, e dopo un centinaio di metri, in seguito ad una caduta, si spegne la moto.

"Ed è uno" penso, cominciando a scalciare come un forsennato sulla leva della messa in moto ma di partire neanche a parlarne, comincio a sudare e Nico dice "io comincio ad andare mi raggiungi poi" mentre mi levo il casco perché comincia a mancarmi l"aria.

Intanto chi è partito dopo di me mi sorpassa ed io passo al giubbotto ed elle pettorine pensando "è il colmo la mia prima gara  termina prima ancora di finire il primo giro.

Decido di riprendere fiato visto che la fatica comincia a farsi sentire e la gamba andare il acido lattico.

Fortunatamente la mia buona stella non mi abbandona e riesco a far partire la moto, mi rivesto e parto tirando come un dannato, tenendo d'occhio le frecce rosse che si trovano ora sul terreno ora sui muri ora sui massi che non mancano mai.

Raggiungo l'asfalto e recupero il tempo perduto, raggiungendo Nico alla partenza della prima prova speciale.

Si tratta di un fettucciato interminabile tipo campo da cross ma con molte salite e discese ripidissime, con alcuni salti a base di terra di riporto e curvoni dello stesso materiale, nei quali colleziono una buona parte di cadute e di relative messe in moto per la gioia della gamba sinistra.

Alla fine della speciale è l'assistenza che salto visto che sono ancora al primo giro.

Nel trasferimento che segue decido che nell'ultima speciale fatta sarà preferibile girare di conserva, visto che è più il tempo perso a rialzarmi che quello che guadagno correndo.

Sono le 9 e 40 e ringrazio l'allenamento al quale mi sono sottoposto nei mesi invernali perché più avanti andrò maggiore sarà il caldo e la stanchezza accumulata.

Due catanesi su degli 80 cc. mi sorpassano e, visto che conoscono meglio il percorso, mi metto sulla loro scia.

Dopo una svolta a destra in una stradina con degli scalini in salita li sorpasso, forte dei cavalli in più pensando "tanto mi raggiungeranno quando il percorso si farà più duro".

Il loro turno di sorpassarmi arriva verso il termine dello sterrato ma mi rifaccio sull'asfalto, mi sono ormai fatto prendere dalla  competizione.

Il percorso continua ad articolarsi tra tratti di asfalto e sentieri pieni di pietre e muretti da risalire fino alla prova di accelerazione.

Quest'ultima consiste in un rettifilo di 100 metri da percorrere partendo da fermo nel minore tempo possibile: un mangia frizione insomma.

Arrivo tutto contento della mia gara alla seconda speciale e parto deciso a dare il meglio di me stesso, pur non essendo a cronometro visto che siamo al primo giro.

Al mio turno parto sparato facendo la gimcana tra i cespugli di ginestra delimitati dalla fettuccia bianco-rossa ma dopo un salto in curva... cado rovinosamente: "questo salto è da tenere in considerazione al prossimo giro" penso e mi affretto ad alzare la moto, ma quando salgo in sella per partire, mi guardo attorno smarrito perché ho perso il tracciato.

Dopo alcuni secondi di panico vedo in lontananza un moto che scompare e riappare nella sciara che ho davanti.

Aguzzando la vista noto tratti di fettuccia delimitanti il percorso del pilota che mi aveva sorpassato mentre rialzavo la moto.

"Andiamo bene" dico e mi avvio nella direzione dell'ultimo avvistamento. Ebbene la seconda speciale che dovrò percorrere per altre tre volte si snoda lungo un percorso che non mi sarei mai sognato di affrontare.

E' un continuo sali e scendi nella lava mai percorsa prima, con tutte la asperità che la distinguono, comprese le pietre smosse gli scalini i muretti ed i salti, un vero percorso macina braccia.

Fortunatamente a metà trovo un tratto con un muretto a secco a destra e lavatrici con altro materiale da discarica a sinistra, "se cado qui mi distruggo di sicuro" dico tre me e me e cerco di prendere fiato, ma ecco che riprende la lava. "Ma come faccio a corre qui" grido e comincio a maledire il momento di non essermi dedicato al ping-pong.

Finalmente esco dalla speciale mentre sono un bagno di sudore, non certamente aiutato dal sole che comincia a picchiare e dalle  imbottiture che fungono da sauna.

Mentre corro sull'asfalto cercando di recuperare il tempo perduto noto che agli incroci ci sono dei ragazzi che sbandierano al mio passaggio, penso che lo facciano per salutarmi e sistematicamente rispondo al saluto mentre rallento per impegnare l'incrocio, a metà gara capisco che sono lì per bloccare il traffico e farmi passare diritto senza dovere rispettare alcuna precedenza.

Il bello è che all'interno dei paesi sono i Vigili Urbani o i Carabinieri che mi fanno strada e vi assicuro che nel suo piccolo è una bella soddisfazione passare ad uno stop o da un semaforo rosso con la benedizione delle forze dell'ordine!

Dopo alcune mulattiere in posti che neanche con la cartina ritroverei termino il primo giro.

La moto è tutta una botta e sembra passata attraverso due macine dentate ed approfitto dell'anticipo accumulato per darle una controllata.

La piastra para colpi della pompa dell'acqua è piegata verso dentro e la raddrizzo con le mani, il tubo che porta l'acqua al radiatore è storto e mentre lo raddrizzo mi resta in mano.

In un batter d'occhio tutta l'acqua del radiatore esce ed io comincio a gridare come un tarantolato e senza molti complimenti mi faccio tenere la moto da una ragazza che si trovava lì vicino.

Apro freneticamente il marsupio ed esco il giravite, fisso la fascetta che si era allentata con l'urto ed ora? L'acqua dove la trovo? Se fossi stato in piena campagna avrei fatto la pipì nel radiatore ma in piena piazza cosa fare ? Guardo l'orologio e vedo che mancano 2 minuti ed in certi casi 120 secondi sono veramente pochi.

Mi ricordo che sotto il palco avevamo lasciato una bottiglia di acqua gassata per rinfrescare la gola mentre aspettavamo il momento per entrare al controllo orario.

"Tieni la moto grido" alla biondina e mi precipito sotto il palco, torno con la bottiglia sottobraccio e inizio a rabboccare il radiatore con le bollicine che escono dall'orlo,"meglio che niente" dico sorridente alla occasionale assistente che mi guarda interdetta.

Chiudo il tappo, metto in moto e parto a razzo, arrivando in derapata sulla striscia bianca che delimita il controllo, consegno la tabella di marcia al commissario che la vidima accertandosi che non porto ritardo.

Inizio il secondo giro e noto che già dopo un ora e mezza di gara sono ancora ad un quarto del percorso.

Forte dell'esperienza fatta al primo giro forzo un poco il ritmo, arrivando però lungo ad alcune deviazioni, dovendo così tornare indietro.

Ripasso dal posto dove si era fermata la moto e realizzo che forse si era spenta per via di qualche rimasuglio della carta del giorno prima che doveva aver intasato il carburatore.

La polvere alzata da chi mi ha preceduto è ormai una costante ed ho tutta la bocca impastata ed una sete che mi divora.

Dopo una svolta a sinistra apro il gas troppo bruscamente e la moto derapa puntando contro un tronco sul lato della strada. Il cozzo è inevitabile ed ovviamente la moto si spegne, la gamba sinistra è ormai un dolore continuo ma riesco a mettere in moto, ingrano

la prima, accelero lascio la frizione e la moto si rispegne, rimetto in moto riprovo a partire ottenendo però lo stesso risultato, sembra che gli ingranaggi del cambio siano bloccati e comincio a pensare come raggiungere l'assistenza anche perché non ho alcuna intenzione di lasciare la moto.

"Certo che se riuscivo a finire la gara era meglio" penso, nel mentre riesco a partire mantenendo la prima che bene o male mi permette di camminare; arrivo all'asfalto e tiro un sospiro di sollievo, "male che vada qui qualcuno che mi traina lo trovo sicuramente" penso, nel mentre riesco ad ingranare la seconda ed anche la terza, "forse era un problema transitorio" dico e mentre comincio a giocare con il cambio per saggiarlo ottenendo risultati incoraggianti decido di continuare la gara tanto cosa può succedermi di più...

Mi avvio a percorrere la prima speciale per la seconda volta, questa volta però cronometrato, ed un ragazzo che corre nella mia stessa classe chiede se può partire prima di me subodorando di non trovarsi un veloce che potrebbe fargli da tappo. "Prima di me non ti faccio partire per principio, però se mi raggiungi gridami che ti faccio passare" replico con aria di sufficienza e parto cantando una canzone di Reitano che modificata da me fa "Prendi questa mano Tindaraaa...".

Ovviamente viste le mie risorse fisiche me la prendo comoda tanto anche tirando allo spasimo non avrei storia visti i siluri che mi precedono. A metà speciale mentre mi destreggio in una serie di curve in pendenza in mezzo agli alberi sento una specie di suono alle mie spalle e realizzo che lo stesso suono mi segue già da un pezzo, mi volto e vedo il tizio della partenza incollato alla mia ruota posteriore che si dimena e grida come un pazzo. A mò di scusa indico il casco all'altezza delle orecchie ed al primo slargo accosto e lo faccio passare mentre lui mi grida "vaffanculo".

Sicuramente aveva giudicato bene il suo avversario ma diamine la guerra è guerra per tutti e sicuramente anche lui avrà fatto da tappo a qualche altro, e poi chi se ne frega.

Lo riaggancio alla fine della prova speciale mentre  l'assistenza mi levano letteralmente la moto di sotto e Daniela mi ficca in bocca un cucchiaino di miele.

Mi attacco ad una bottiglia d'acqua lo avvicino e con piglio deciso lo apostrofo dicendogli "parlavi con me poco fa ?", lui si scusa dicendomi : "era un pezzo che non riuscivo a passarti ma comunque andavi più piano di me", "dispiace anche a me" rispondo "comunque la prossima volta arriva prima di me così non mi trovi davanti", gli volto le spalle e raggiungo la moto provando un senso di sadica soddisfazione, allora non vado così piano se no mi avrebbe sorpassato facilmente.

Parto con il pieno nel serbatoio e tutti i cavi e leve lubrificati, "la potenza dell'assistenza" dico ad alta voce, tanto chi mi sente.

Ho il tempo di maledire il sole di giugno che da queste parti cuoce come ad agosto, coadiuvato dal calore che il terreno nero emana.

Impegno al alta velocità una strada in leggera salita prendendomi la "questione" con un Suzuki 4 tempi che non riesco a sorpassare, sentendomi un veloce.

Lo sorpasso di prepotenza autoconvincendomi di essere veramente un pilota degno di tale nome. Ma due curve dopo vado diritto ad una curva e finisco con tutta la moto in un mega cespuglio di rovi. Tento freneticamente di uscirne ma non riesco neanche a scendere dalla moto tale è il groviglio che mi avvolge.

Nel frattempo la Suzuki passa salutandomi con un colpetto di claxon ed io ritorno con i piedi per terra.

Passano 5 minuti buoni prima che riesca ad uscire da  quell'infernale groviglio e realizzo che viste le mie doti è di gran lunga preferibile la gara di conserva.

Controllo l'orologio e la tabella di marcia e vedo che sono  lievemente in ritardo, arrivare ultimo sì ma non con delle penalità. Ed eccomi nuovamente a tirare come un criminale cercando di distendere la gamba sinistra nei rettifili visto che i crampi da messa in moto cominciano a tormentarmi.

Arrivo così sparatissimo al tratto che mi aveva visto impegnato nella precedente mini sfida con quegli 80 ed al primo scalino prendo una gran botta con la ruota posteriore.

Penso "spero che non sia successo niente di grave" e proseguo con la stessa andatura ma dopo pochi metri si insinua nella mia mente un dubbio avvalorato dalla strana tenuta della moto in curva, "posso credere...", scalo le marce fino alla prima e mi fermo, guardo dietro e vedo quello che non avrei voluto vedere mai.

La ruota posteriore totalmente sgonfia! Quella gran botta aveva pizzicato la camera d'aria con il cerchione forandola.

Ed ora? Passo in rassegna tutto quello che mi era successo fino ad ora: crampi, radiatore senz'acqua, cambio bloccato. E chi si ferma più. Decido di continuare scoppio maledendo il momento in cui non mi ero messo nel marsupio la bomboletta riparagomme.

I primi chilometri li percorro cercando di risparmiare copertone e ruota ma poi, potenza della gara, dimentico tutto e riprendo a mantenere un regime sostenuto.

Al momento della prova d'accelerazione, temendo di perdere il copertone decido di partire piano, più piano del previsto visto che non ingrano la prima e parto di seconda:"Ma quanto ci stà a prendere giri sto motore" penso, e continuo ad inanellare cattive figure.

La seconda speciale nella sciara è un vero calvario, la moto è letteralmente inguidabile e le braccia non ci sono più; e pensare che non sono neanche a metà.

Al controllo orario incontro un ragazzo di Palermo che corre con il nuovo modello della mia moto e con il quale si era instaurata una sorta di cameratismo. "Cambia la gomma" mi grida, "come fai a guidare così", "Se cambio la camera d'aria perdo almeno due ore ed arrivo a notte inoltrata" rispondo, "preferisco continuare così", "contento tu" replica lui e se ne va forte della sua gomma gonfia al punto giusto.

Nelle mulattiere accumulo un discreto ritardo e devo recuperare sull'asfalto perfezionando una tecnica a me nuova: correre il più possibile nei rettifili e rallentare il più possibile nelle curve per non finire all'ospedale.

Ormai transito dagli incroci a 120 chilometri orari, sperando di non perdere il copertone, senza più salutare gli sbandieratori e benedendo al tempo stesso questa iniziativa dell'organizzazione.

Arrivo al termine del secondo giro stremato e trovo Claudio e Nico tranquillamente appoggiati ad un muretto che smaltiscono i loro 20 minuti di anticipo. Io ne ho solo 5 per recuperare e decido che mi debbono bastare.

Controllo la ruota posteriore e conto i raggi della ruota. Fortunatamente all'appello non ne manca nessuno. Transito al controllo orario in perfetto orario, sono le 12 e tutto va male!

Se il secondo giro e stato faticoso il terzo è un vera Via Crucis, il caldo è insopportabile mentre braccia e gambe non sembrano esserci più. Decido di adottare la filosofia del "quanto mi manca" e non più quella del "quanto ho fatto".

Ecco da qui devo passarci un'altra volta sola. Questo posto ormai lo conosco e so come passarci facile e così via.

Lungo il percorso incontro sempre meno gente, il serpentone dei piloti si è completamente sgranato, buona parte degli spettatori è andata a mangiare ed io che corro da solo attingendo energia da un cornetto ed un caffè presi la mattina.

Fortunatamente la polvere mi accompagna costantemente e la bocca ha ormai un sapore indefinito, la saliva non c'è più ed avrò perso un paio di chili tra grassi bruciati e sudore.

Ormai conosco il percorso a memoria, non devo più badare alle indicazioni e posso gestire meglio le poche risorse fisiche in virtù degli ostacoli che mi aspettano, recuperando tempo ed energia nei trasferimenti su asfalto e spendendoli entrambe nelle mulattiere ed i sentieri che fanno comunque parte della maggior parte del tracciato.

La prima delle prove speciali non mi crea più problemi, sicuramente avrò tempi vicini all'ultimo assoluto, ma l'obbiettivo resta portare a termine la gara.

Quello che comunque più mi preoccupa è la speciale sulla lava. Quando vi arrivo gioisco al pensiero che è la penultima volta che la percorro; arrivato a metà nel tratto tra i frigoriferi ed il muretto scorgo un pilota che stremato dalla fatica o bloccato da un guasto meccanico è seduto sul ciglio del sentiero con la moto appoggiata ad una pietra e la testa tra le gambe, passando gli dico "è dura ?" pensando a quanto doveva stare bene chi a quell'ora in spiaggia si crogiolava al primo sole dell'estate.

Nell'ultimo tratto, a causa dei salti dovuti alla natura del terreno, perdo addirittura le stecche per smontare il copertone che tenevo nel borsello fissato al parafango posteriore.

La prova d'accelerazione è ormai una formalità e termino il terzo giro arrivando con 3 minuti d'anticipo.

Un piazza ritrovo il palermitano che rinnova la sua esortazione a sostituire la camera d'aria. "Ormai ho fatto 30, posso fare 31" rispondo e mi chiedo con quali forze terminerò l'ultimo giro.

Il percorso è ormai stravolto, alcuni punti sono distrutti dalle centinaia di passaggi e dalle tracce dei copertoni e noto, con un certo piacere, che certi tratti sono stati saltati per intero. "Meglio" penso, "se li saltano gli altri posso saltarli anch'io, e poi cosa ho da perdere".

Mi avvio verso l'ultima tornata della prima speciale, aspetto il mio turno e quando sono sulla linea di partenza a 15 secondi dal via un commissario mi dice con marcato accento catanese: "compare che fai perdi benzinaa?", guardo sotto la moto mentre il cronometrista scandisce i 10 secondi e vedo del liquido gocciolare e dimostrando di non fare tesoro delle esperienze precedenti, vado a toccare i tubi del radiatore.

Ed ecco che me ne resta uno in mano mentre tutta l'acqua minerale precedentemente messa defluisce con un sinistro gorgoglio, 5 secondi, "che fai ti ritirii" incalza il catanese con quel suo parlare cantilenante, faccio rapidamente mente locale: l'assistenza mi aspetta subito dopo la prova speciale, devo percorrere poco meno di un chilometro senza acqua nel radiatore, il motore ha rivelato fino ad ora buone doti di robustezza, ma sì, chi se ne frega !

3,2,1 ... via , ingrano la prima e parto, tanto in un modo o  nell'altro deve finire questa gara.

Arrivo all'assistenza gridando a squarciagola "il radiatore! il  radiatore!", inchiodo la moto e scendo come se stesse per esplodermi di sotto, e mentre mettono la moto su cavalletto, apro il marsupio ed esco i ferri, me li piazzo davanti e mi sistemo sotto la moto presso il punto da dove avevo perso il liquido.

Si era allentata una fascetta che bloccava il tubo del liquido proprio all'altezza dei collettori di scarico della marmitta (il punto più caldo della moto dopo la camera di scoppio), mi rimetto i guanti che nel frattempo avevo tolto e cerco di rimettere in sede il tubo.

Grido per il dolore visto che nonostante i guanti di pelle le mani mi bruciano, fortunatamente arriva il padre di Nico con due bottiglie d'acqua che mi versa sulle mani e sui collettori mentre lavoro. A peggiorare le cose continua a cadermi sulle mani quel poco di acqua che era rimasta nel cilindro che ovviamente è oltremodo bollente. Continuo a gridare e a maledire ad alta voce il giorno che ho deciso di gareggiare mentre, attraverso numeri da alta scuola di  prestidigitazione cerco di sistemare il tubo in posizione e fissargli attorno una nuova fascetta che fortunatamente avevo di scorta. Alla fine dell'acqua delle bottiglie riesco ad avvitare il tubo e mentre Daniela cerca di calmarmi Nicola riempie il radiatore con della fresca acqua di fontana, rabbocca il serbatoio della benzina e via verso l'arrivo.

Parto gridando alla folla di curiosi di farmi strada, mentre il  retrotreno mi scoda a causa della gomma scoppia e finalmente riesco ad uscire da quel labirinto di persone e mezzi che generalmente è il parco assistenza.

"Coraggio hai quasi finito" mi dico e non ho il cuore di pensare cos'altro possa succedermi.

Sono comunque diventato un esperto della guida con ruota scoppia e sia sull'asfalto che sullo sterrato riesco a fare numeri a me fin'ora sconosciuti. Nel primo, sul dritto, prendo punte velocistiche pari alle condizioni ottimali della gomma, nel fuori strada ho preso totalmente confidenza con la guida in controsterzo e mi preoccupo quando qualche volta la moto mantiene la traiettoria.

La seconda e fortunatamente ultima speciale è talmente dura che pur di evitare gli ultimi 30 metri di pietre, aggiro lostacolo rischiando la squalifica.

Ormai è finita e sono in vista del paese, devo solo fare un leggero giro che il percorso mi impone e poi sono arrivato.

Nell'ultima mulattiera però, all'altezza di una strettoia tra due massi appuntiti cado e rimango su di un fianco reggendomi con la mano sulla punta di una pietra e con la gamba tra il masso e la moto.

Cerco di alzarmi ma con la forza di braccia non ce la faccio e non posso neanche utilizzare le gambe, intanto il palmo della mano mi duole e l'avambraccio aveva già dato tutto un ora fa, mentre la gamba sotto il peso del corpo comincia a fare leva tra la punta del masso e la moto.

Comincio a preoccuparmi anche perché sono solo; fortunatamente nel frattempo arrivano 3 concorrenti che vistomi a terra aspettano che mi alzi per passare, solo che io non mi alzo e, quando capisco che non hanno ancora realizzato la situazione, mi metto a gridare "dolore, mi sto rompendo la gamba, levatemi la moto di  sopra!", capiscono e con tutta calma mi liberano da quella strana posizione e, come se nulla fosse successo prendono le loro moto e si avviano.

Resto seduto a terra ancora un poco, visto che la gamba mi fa male ma poi, richiamato dal cronometro mi accorgo me mancano pochi minuti, almeno così credo.

Mi rialzo, metto per la centesima volta in moto notando come sia sempre più dura la leva e parto come un assatanato.

Arrivo in paese come una scheggia gridando alla folla di farmi passare "sono in ritardo!" grido ma poco prima di entrare al controllo orario mi accorgo che sono ancora in anticipo.

Mi fermo di colpo, suscitando espressioni interrogative in chi si era fatto da parte per farmi passare, spengo la moto ed inizio ad  spettare. Dopo circa un minuto spunta Ciccio che aveva terminato quasi un'ora prima il quale mi dice "Non lo sai che  all'arrivo l'anticipo non paga penalità?", tutto soddisfatto taglio allora il traguardo (in moto ovviamente), consegno la tabella di marcia ed a spinta porto la moto al Parco Chiuso che è già pieno.

La appoggio ad un muro e scorgo lì vicino una fontana, faccio la mia buona fila e quando viene il mio turno mi attacco alla canna bevendo come un cammello.

Quando penso di non farcela più a bere mi stacco dalla fontana e mi avvio verso il gruppo. Mentre mi avvicino mi viene incontro Nicola il quale complimentandosi per la tenacia da me dimostrata mi offre un bottiglia di acqua piena per 3/4.

Gli restituisco la bottiglia vuota e, arrivato in prossimità del furgone mi accascio per terra dicendo svegliatemi al momento della  esposizione delle classifiche.

IL RECUPERO

Dopo circa un quarto d'ora decido di alzarmi per cambiarmi visto che sono un pezzo d'acqua e perché ho un certo languorino.

Sono le 3 e mezza ed il digiuno associato alla fatica mi fanno fare fuori un filone di pane casareccio imbottito recuperato dalla provvidenziale Daniela in chissà quale bottega.

Ci toccherà aspettare diverse ore, trascorse sistemando materiali e moto e mangiando cornetti algida, prima che vengano esposte le classifiche e le otto di sera prima che abbia atto la premiazione visto che Nico si è classificato.

A sera inoltrata partiamo finalmente alla volta di Messina, stanchi ma soddisfatti.

"Quand"è la prossima gara" chiedo da bravo Stakanovista della moto, appena arrivati in città.

Ciccio sorride e risponde "tra 3 settimane" ed io: "ci sarò".